La mia foto
La Societologia è la scienza dei luoghi comuni, nasce infatti nelle piazze, nei bar, nelle sale d'aspetto, nei social network e in tutti i luoghi dove le relazioni umane intessono la loro collettiva e mutevole visione del mondo.

lacquacalda è un'osservatorio sulla salute sociale, tasta solo il polso, non prescrive medicine, non fa diagnosi, per cui è anch'esso sintomo di un male sociale: quello di voler parlare ad ogni costo anche quando non si ha nulla da dire.

La strategia della lucertola



La civiltà di un popolo si misura sui miti che ha inventato
e poiché la stragrande maggioranza dell’umanità
tuttora vive su mitologie e miti fasulli,
la civiltà è a tutto oggi un miraggio".
(Gabriele Palombo)

  
Il cambiamento nasce sempre da una rivoluzione e la rivoluzione altro non è che  un movimento, un gesto, un pensiero inconsueto, inedito, imprevisto. Anche l’evoluzione delle specie viventi è frutto di  queste novità che, più o meno a casaccio, intaccano l’ordinario ripetersi degli eventi, eppure risulta così difficile per noi umani cambiare le nostre idee, abitudini, posizioni, vizi e  manie, anche quando queste risultano contrarie al nostro benessere. Nel regno animale la capacità di adattamento e la conseguente sopravvivenza hanno determinato la fortuna o la sfortuna di intere specie, nel caso nostro invece il linguaggio e la sua incredibile capacità di affabulare, sconvolgere e riscrivere la realtà, ha dato la possibilità di sconfiggere l’evidenza a favore di immagini simboliche spesso errate e distorte.
Lo stesso potere che ha generato il mito, la favola,  l’arte e la nostra assoluta capacità di tradurre il mondo in infinite declinazioni quante sono le parole, ha anche determinato la nostra incapacità a cedere di fronte all’evidenza dell’errore. In effetti la costruzione del mito è anche un processo privato e quotidiano, non solo un’esclusiva dei cantori e dei poeti, ma strumento costante di trasformazione del mondo in riservata coscienza e soggettiva interpretazione. La memoria e l’abitudine ad adottare un preciso stile interpretativo, genera nelle nostre reti neuronali dei veri e propri solchi preferenziali, come canali di erosione che portano l’acqua sempre in una stessa direzione, assetando e inaridendo il terreno circostante e allagando frequentemente quello dove è consona a transitare. Tale fenomeno fa si che, al pari dei corsi d’acqua, anche i nostri pensieri, tendano a scorrere e sfociare sempre nello stesso punto, anche quando sarebbe necessario cambiare il corso delle idee per permettere di alimentare nuove prospettive. Siamo tutti vittime della nostra ripetitività, del nostro essere troppo noi, delle nostro replicare all’infinito le nostre regole permettendo spesso come unico cambiamento solo quello dell’invecchiare:  il motivo per cui “il futuro”  fatica a farsi strada è dovuto al fatto che il tempo necessario ad accettare il cambiamento è talmente lungo che ogni novità fa in tempo a diventare obsoleta e a somigliare incredibilmente a quel “vecchio”  che doveva rimpiazzare.
 Tutti gli animali in natura hanno strategie di sopravvivenza, la lucertola ad esempio, molla la coda tra le zampe del gatto, sacrificando una sua parte per salvare il resto, ma sappiamo che il gatto è molto superiore alla lucertola nella scala evolutiva, per cui con molta probabilità, la prossima volta che incontrerà una lucertola, con o senza coda,  la afferrerà per la testa, perché da quell’unico errore commesso avrà imparato. Poniamo l’assurdo che al gatto venga impiantato un cervello umano e immaginiamolo  nella stessa situazione: il suo comportamento potrebbe risultare oltremodo bizzarro, in quanto pur di non ammettere il suo primo fallimento, prenderà di nuovo la lucertola per la coda dicendo che infondo è la sua parte migliore (ci sarà anche  chi dirà che la lucertola non si può più afferrare perché gli manca la coda).  Mentre il rettile riproduce eternamente la sua tattica perché il suo cervello è quasi esclusivamente guidato dall’istinto, il gatto, oltre ai comportamenti programmati, ha una grande capacità di apprendimento e più saliamo nella scala evolutiva più l’apprendimento domina sull’istinto. L’uomo è un animale quasi esclusivamente cognitivo, che sviluppa le proprie capacità attraverso l’esperienza e l’insegnamento, basti pensare a quei casi di bambini selvaggi cresciuti in isolamento e poco più competenti di una scimmia.  Nonostante le evidenze appena descritte, l’essere umano dimostra una grande resistenza ad adottare schemi e strategie diverse dal consueto, riducendo spesso la sua vita ad un ciclo di reiterazione di uno stesso errore o distruggendo ciò che ha creato per l’incapacità di adattare sé stesso, le proprie idee e le proprie certezze ad un mondo in evoluzione. Paradossalmente l’animale creativo, inventore e intelligente per eccellenza si ostina a prendere la lucertola per la coda: ciò avviene nelle relazioni tra genitori e figli, moglie e marito, tra amici, tra colleghi, tra capi e dipendenti, tra istituzioni politiche e cittadini, avviene in guerra, in vacanza,  lungo l’autostrada, al lavoro, in palestra, in parlamento, nei circoli di burraco, nei complessi rock e al supermercato. La rigidità dei nostri schemi fa comprare e vendere sempre lo stesso prodotto, rende difficile mettersi nei panni altrui, quasi impossibile chiedere scusa,  ma soprattutto fa attribuire la colpa dei fallimenti sempre a qualche entità esterna, processo attraverso il quale si genera la mitologia del nemico, narrazione mentale che ci induce a credere sempre in un dio cattivo e dio uno buono, dove il dio cattivo è di volta in volta incarnato in creature pandemiche, incarnazioni delle nostre paure e delle nostre angosce, che possono variare la loro forma e sostanza prendendo le vaghe sembianze della crisi, o quelle più definite della Merkel o quelle più esotiche degli extracomunitari, fino alla faccia del vicino che mette le mondezze nel posto sbagliato.  Trovare un responsabile di un errore primario, il portatore di una sorta di peccato originale, ci allevia dall’oscuro pensiero che la maggior parte del nostro destino e delle nostre azioni dipenda principalmente da noi, coscienza che obbligherebbe ad un frequente e regolare cambio di idee. Il principale finto mito che l’uomo moderno ha creato, per sostenere questa sua affezione alla cristallizzazione, è quello di attribuire alle proprie idee  una sorta di materialità il cui possesso determina  la propria forza, componendo il sillogismo errato per cui il rinunciare ad un ad una propria certezza comporti un’ammissione di debolezza.
La costruzione del mito nasce sempre dall’esigenza di fermare nel tempo, strutturare e descrivere in forma narrativa una serie di eventi che alle volte possono coincidere con l’epopea di un’intera società  come di un solo eroe, certo è che per sua natura il mito descrive attraverso un linguaggio semplice, ingenuo come una battaglia tra dei volubili e uomini d’avventura, una realtà impossibile da interpretare e spesso ricca di dissonanze e di aspetti poco edificanti.   Il mito ha avuto spesso la funzione di  esaltare le origini di popoli che erano poco più che pastori (si pensi all’Eneide), odi  dare dignità poetica a  guerre  tribali,  giocate per lo più a sassate e clave in testa, per accaparrarsi un fazzoletto di terra (vedi Iliade), stessa funzione conserva quando, raccontandoci che abbiamo ragione ad ogni costo, cerchiamo   di dare ai nostri errori una dignità che non hanno e ci erigiamo ad eroi della nostra personale battaglia persa. Perché accade questo? Perché le persone non sono disposte ad accettare visioni alternative? Perché cambiare opinione, giudizio, condotta o regole comporta uno sforzo nettamente maggiore che cambiare macchina, cellulare o addirittura partner? Probabilmente perché l’uomo è un animale astratto, composto più del suo pensiero che della sua stessa carne, tanto che attorno alle idee costruisce tutta la sua identità, senza preoccuparsi se questa possa essere migliore ma concentrandosi solo sul mantenerla intatta, come se dalla sua integrità dipendesse la sopravvivenza di sé e della sua intera specie.

In effetti il mito e la sua immortale, affascinante,  prodigiosa menzogna è ciò che più di ogni altra cosa ha tenuto in vita  la leggenda che siamo eterni, tale illusione in fin dei conti è ciò che ci serve per sopravvivere. 

Elena Pascolini

La crisi del 100esimo anno


Le parole sono importanti! (Nanni Moretti)



Se durante una cena chiedessimo il sale e ci venisse offerto  l’olio  e ad una  nostra rimostranza ci venisse detto che tanto olio e sale sono la stessa cosa, quale sarebbe la nostra reazione?
Molto probabilmente risponderemo con un sollecito ad  esaudire correttamente il nostro desiderio o, se fossimo  particolarmente timidi, ci terremo l’olio ma non per questo lo useremo al posto del sale convinti che abbia lo stesso sapore.
Ecco perché le parole sono importanti: perché ad ognuna corrisponde  un oggetto, un sentimento, un’ istanza, un carattere, una qualità, uno stato emotivo.
L’italiano è una lingua complessa, che comprende più di 250.000 lessemi   e nonostante il  parlato comune stia subendo un evidente impoverimento, resta comunque una delle lingue con maggiori sfumature e conseguenti possibilità di espressione;  migliore è la nostra dominanza dei termini e del loro significato, migliore sarà la nostra capacità di trasmettere contenuti complessi, ma soprattutto di comprenderli a nostra volta. E’ una caratteristica del tutto umana a cui raramente si pensa: il nostra linguaggio e il nostro universo simbolico sono la stessa cosa e solo l’essere umano può vantare tale eccellenza e tale possibilità di comprensione del mondo circostante. Ciò è molto importante soprattutto quando impariamo, dalla prima infanzia, a dare un nome alle nostre emozioni, più il nostro vocabolario aumenta, più aumenterà la capacità di distinguere gli stati interni; dalle  embrionali dualità  buono/cattivo, bello/brutto, triste/allegro che contraddistinguono il pensiero infantile e primitivo,  l’essere umano raggiunge, parallelamente all’evoluzione del linguaggio,  anche una comprensione sempre più raffinata dei sentimenti e degli stati emotivi, suoi e del prossimo; quanto più  vario e dettagliato sarà il nostro vocabolario, tanto maggiore sarà la possibilità di descrivere e distinguere ciò che proviamo come  la rabbia, il disappunto, la vergogna, la nostalgia, l’orgoglio, l’ amarezza, l’ euforia, la contrarietà, la delusione, l’entusiasmo  ecc.
La complessità del linguaggio al nostro mondo, interno ed esterno, infinite possibilità che le dualità bello/brutto, buono/cattivo/ giusto/sbagliato non riescono a rendere, per questo mi rammarico quando sento qualcuno dire che per lui esiste solo il bianco o il nero, in quanto chi non coglie le sfumature delle cose rinuncia già in partenza al tentativo di comprenderle.
Ci sono parole che in particolari periodi o congiunzioni storiche divengono  eccessivamente ricorrenti, tanto da essere quotidianamente presenti nella nostra vita, al punto tale da influenzarla. La parola crisi sta subendo questo abuso con il rischio di trascendere il suo significato. Qui di seguito si può leggere la definizione che ne da il Sabatini Coletti, Dizionario della Lingua Italiana
crisi
[crì-si] s.f. inv.
·         1 Deterioramento di una condizione oggettiva con conseguente instabilità socio-politica e decadenza delle istituzioni civili; turbamento della pacifica convivenza, della vita in comune: c. internazionale || c. di governo, cessazione del governo in seguito a dimissioni o a un voto di sfiducia
·         2 Periodo caratterizzato da una caduta della produzione, da disoccupazione, scarsa utilizzazione degli impianti, riduzione degli investimenti SIN recessione
·         3 Incrinatura di un rapporto, interruzione della precedente armonia: una coppia in c.
·         4 Sconvolgimento dell'assetto interiore di un individuo SINinquietudinesmarrimentoc. di coscienzapassare un momento di c.
·         5 med. Cambiamento improvviso nel decorso di una malattia; estens. fase acuta di una malattia: c. diabetica; scoppio di uno stato emotivo: c. di pianto

Si deduce che il termine crisi denota una situazione transitoria, anche quando si riferisce ad una congiuntura economica negativa o ad un particolare momento storico.
 L’eccessivo riferimento dei media ad uno stato di  crisi  induce la costante speranza ed attesa di un ritorno di stabilità, identificato nello stato di maggior benessere precedente. In effetti non è così per due ragioni:  la prima è che il periodo corrente è eccessivamente lungo per essere definito crisi, la crisi è probabilmente già avvenuta, ora siamo in una nuova fase del tutto diversa dalla precedente e probabilmente destinata a perdurare;  la seconda è che l’episodio di crisi  necessita di un cambiamento da parte del sistema per premette un nuovo equilibrio. Il ridondare di questo termine, soprattutto ad opera delle istituzioni di governo, fa si che le persone vivano l’illusione di un momento di passaggio, anomalo ed eccezionale, destinato a rientrare spontaneamente, senza che il sistema applichi particolari mutazioni. Può una parola ingannare le masse? Assolutamente si, al punto da determinare uno stallo sia psicologico che reale, molto spesso favorevole ad una  minoranza che non ha alcun interesse ad attuare un cambiamento in quanto pregiudicherebbe status,   privilegi e prassi, spesso dannose e antieconomiche per tutti gli altri tranne che per loro. Il cambiamento necessario per raggiungere un rinnovato equilibrio dovrebbe partire dalla necessità di una rivoluzione culturale che riporti la sopravvivenza e la dignità dell’essere umano al primo posto rispetto alle esigenze di mercato e di ricchezza di una minoranza. Tale minoranza non è ancora del tutto cosciente di essere anch’essa ormai destinata al tracollo in vista dell’esaurimento delle risorse e dell’impoverimento della massa che è stata, sin ora,  il motore principale dell’ economia di mercato e la fonte reddituale della classe dirigente: in poche parole il sistema ha mangiato sé stesso impoverendo la stessa fonte di cui si nutriva e senza gente che compra e paga le tasse è destinato irrimediabilmente al collasso.
Si chiede alle persone di fare sacrifici ma non di modificare la loro visione del mondo e delle cose, si dice di stringere i denti, di sopportare, ma non si  dice che probabilmente questa sopportazione durerà per tutta la loro vita  e per molte generazioni  successive, si pensa a come salvare un’ economia già morta ma non si pensa da dove far nascere quella nuova, si toglie potere d’acquisto e si continua ad immettere beni nel mercato come se tutto fossimo in pieno boom economico, si coltiva l’idea che se sei povero è colpa tua perché non sei abbastanza furbo (sottolineo furbo, perché in Italia la furbizia è un pregio, l’intelligenza è un fardello) .
La verità è che non siamo in crisi, semplicemente siamo diversi, siamo cambiati, se fossimo una coppia potremmo serenamente dirci che non ci amiamo più, se fossimo un malato dovremmo affermare di essere sopravvissuti al male grazie ad un’amputazione, se fossimo  un periodo dovremmo chiamarlo o Terza rivoluzione industriale o Post Capitalismo a seconda se volessimo virare verso l’ottimismo o verso l’incognita. Nessuno osa dare un nome a quest’epoca perché già, il solo chiamarla diversamente, non giustificherebbe più  questo stato di immobilità,  senza rivoluzioni e senza trasformazioni, congelati in una brutta posa nella foto ricordo di ciò che eravamo.
La parola tormentone da sostituire a crisi dovrebbe essere cambiamento, ma non piace a nessuno, neppure a quelli che cambiando starebbero meglio, figuriamoci a chi starebbe sicuramente peggio.

Riferimenti bibliografici
Processi simbolici e dinamiche sociali  Augusto Palmonari (ed. Il Mulino 1995)
La terza rivoluzione industriale Jeremy Rifkin (ed. Mondadori, 2011)
Elena Pascolini


La rivoluzione della pausa caffè


 
Attribuiamo importanza a questa o a quella cosa per poter credere che in questa vita arida e desolata esista qualcosa d'importante.
Joan Fuster, Giudizi finali, 1960/68


Cari amici che avete ancora  la pazienza di leggermi mi chiedo se avete la stessa pazienza nel tollerare chi vi dice che ci sono cose più importanti - “di cosa?” - Vi chiederete:  di qualsiasi cosa che per voi, in un dato momento, risulti particolarmente importante; vi lamentate del vostro raffreddore? Ci sono cose più  importanti.  Il vostro migliore amico vi ha deluso ? Ci sono cose più importanti. Il vostro capo vi stressa. Ci sono cose più importanti. Siete stati licenziati? Ci sono cose più importanti. Siete in punto di morte? Ci sono cose più importanti.  A quest’affermazione segue  spesso l’esempio, il saggetto, il compendio su cosa in effetti sia degno di attenzione e quasi sempre risulta essere un problema di portata universale irrisolvibile   o una faccenda  assolutamente irrilevante per  voi ma intollerabile per il vostro interlocutore.  questo fenomeno è una parte della pragmatica della comunicazione e anche se non ne afferriamo immediatamente l’utilità è un elemento del  discorso, nello specifico una  perlocuzione, ossia una frase  in risposta ad un’altra che permette, in una sorta di partita al rilancio, di esprimere le proprie opinioni e descrivere il proprio parere attraverso atti linguistici sintetici, ossia saltando tutti i passaggi che sarebbero necessari per arrivare al dunque. Lo spiego con un esempio:
Pino dice a Gino: bisogna dire alla direzione che è intollerabile  che la macchinetta del caffè funzioni un giorno si e uno no
Gino, che non beve il caffè ma che ha da poco ricevuto un richiamo perché posta gattini su facebook nell’orario di lavoro, risponde: ci sono cose più importanti, ad esempio è inammissibile che con tutte le ore di straordinario non pagate e il lavoro da schiavi che facciamo qua dentro non ci permettano di usare la rete, non usare la rete nel 2014 significa usare la clava quando gli latri usano la pistola a laser
Pino che per imparare a scrivere una e-mail è andato a lezione dal nipote a la prima e ultima volta che è entrato  in internet  ha comprato per sbaglio  e un modellino del duomo di Milano fatto di fiammiferi  ma che, nonostante una leggera ipertensione,  non vive senza caffè, risponde: credo che sia più importante, in linea di principio, garantire un livello minimo di benessere ai lavoratori,  almeno in quel poco di pausa che hanno, si comincia da queste piccole negazioni quotidiane e ci si ritrova senza i diritti basilari, il discorso della rete mi sembra oltremodo secondario.   
Gino che passerebbe volentieri,  non dico tutte le ora lavorative, ma almeno la pausa caffè a sostenere la causa dei gattini su facebook, rilancia: tu non capisci che la pausa caffè rappresenta il controllo  da parte del potere sull’utilizzo del tuo tempo,  mentre la rete rappresenta la libertà di informazione e pensiero e negare l’accesso in internet equivale a metterti in galera!
La discussione continua per tutta la pausa, tanto la macchinetta è rotta e a Gino hanno messo  i blocchi al computer. In questo genere di conversazioni  il finale è pressoché lo stesso, nessuno convince l’altro della bontà della propria causa e nessuno trova un alleato alla sua protesta, per cui niente cambierà ma entrambe le parti avranno avuto modo di sfogare il loro personale malcontento con la velata speranza di usare l’energia innovatrice dell’altro per risolvere il proprio problema, in pratica il messaggio reale era:  se hai voglia di darti da fare per qualcosa datti da fare per una cosa che interessa a me. Niente di male in tutto ciò, solo la prassi quotidiana della maggior parte delle nostre conversazioni, che nonostante la loro apparente inutilità ci tengono uniti e favoriscono l‘aggregazione e lo scambio sociale che, come detto più volte, ha necessità di luoghi comuni più che di terre estranee e inesplorate.
 Il problema, come sempre, è quando dal piano informale e privato si passa a quello formale e pubblico: il fenomeno in questione è talmente esteso e  frequente che è stato coniato un termine per definirlo: benaltrismo[1] .

Il benaltrismo  è lo strumento dialettico attraverso il quale si afferma che c’è sempre qualcosa di più importante, grave, urgente, rilevante di cui occuparsi: lo scopo essenziale di questo modello comunicativo, assai abusato in politica e da numerosi personaggi che detengono ruoli decisionali e di potere, è quello di distogliere nell’immediato l’attenzione dai problemi per i  quali non si hanno strumenti,  intenzione e interesse a trovare una soluzione. Il benaltrismo raggiunge ottimi livelli di gestione delle masse nel momento in cui riesce, non solo a distrarre, ma anche a creare dei veri e propri movimenti a favore del “ben altro”, come se Pino avesse convinto Gino a fare sciopero per il suo caffè nonostante lui non lo bevesse . Nei contesti professionali viene adoperato per screditare la protesta e l’attività sindacale o per disaggregare i lavoratori che tendono ad unirsi in nome di una problematica  ritenuta scomoda e se non si arriva alla strumentalizzazione estrema sopra descritta è  facile che si arrivi alla stasi o all’eterna procrastinazione di un' azione reale. La forza di metodo sta nel fatto che ci sarà sempre ben altro a cui pensare e che al “c’è di peggio” non c’è fine, come non c’è limite all’escogitare qualcosa che sia sempre e comunque più importante di te, di me, delle nostre vite, se serve a migliorare la vita di qualcun altro.
Di esempi in questo caso ce ne sono davvero troppi e per par condicio mi astengo dal riportarli, lascio a voi cari pazienti lettori il gusto di smascherare i benaltristi e non  avreste tutti i torti nel caso mi rispondiate  che ci sono cose più importanti a cui pensare.
Elena Pascolini



[1] La definizione che da il Dizionario di Italiano Garzanti è: Il termine benaltrismo, di cui il suffisso ismo identifica la dimensione di teoria e ideologia, è un neologismo coniato nell’ambito del linguaggio politico italiano a partire dall’espressione colloquiale “ci vuole ben altro”. Si tratta dell’atteggiamento (o della teorizzazione vera e propria) di chi tende a collocare l’origine e la soluzione di un problema “al di fuori” del discorso che si sta affrontando, in un ambito diverso rispetto a quello di discussione. Benaltrismo è dunque quello di chi, a fronte di proposte che vengono fatte, afferma “ci vuole ben altro”; ma è anche quello di chi, quando viene sollevata un critica, sostiene che “i problemi sono ben altri.